DueCento Lettere d’Amore

Racconti e poesie dal Libro Omonimo

PER VOI MIO SIGNORE
di Barbara Favaro (Salò -Brescia)

È un mantello, mio Signore. Per voi Caldo di desideri realizzati a metà, sui quali l’or goglio troppe volte si è frantumato in mille e più schegge che nessun vento ha mai disperso. Vi ho ricamato sulla vita la mia, perché vi rivelasse ciò che i gesti e le parole abilmente tacciono, per timidezza o per timore, tante sono le debolezze e le imperfezioni che il mio animo nasconde.

Eccovi il mio mantello: se adagiate il virile orgoglio noterete che mai fui sleale, crudele, codarda, infedele o traditrice, e se talvolta mi avete trovata complicata, contraddittoria, capricciosa, fu soltanto per il mio spirito che vive e cresce e cambia, costantemente. Questa fu la sfida che esso stesso volle lanciarvi e che voi, per pigrizia ed egoismo, avete scelto di ignorare, bestemmiando sordo contro l’ennesima burla del destino.

Osservate il mio bel mantello: se ascoltate con attenzione udirete il canto, che di ogni donna è l’essenza, prezioso se lo si sa incontrare. Vi stupirete, mio Signore, e lo sgomento crescerà scoprendo in ogni mio gesto che avete dimenticato, o di cui non vi siete curato, un frammento d’anima. E qui che li ritroverete, intatti, ad attendervi.

Sentite com’è caldo il mio mantello!

Con esso mi sono riparata dal gelo di tutte le notti in cui ho pianto la vostra presenza impossibile; quando mi eravate accanto e il vostro pensiero volava bizzoso e scostante lon tano da noi. E in questo mantello che trovai l’oblio ogniqualvolta il vostro sguardo indugiava pigro sui miei fianchi, tra le mie gambe, il mio seno profumato, il viso e persino gli occhi, senza mai chiedere altro, e nel buio sentivo la mia voce pregare: “Coraggio, mio Signore, curiosate in ogni angolo, Svelate le altre donne racchiuse in me, troverete altri modi per amarmi e mille altri di essere amato”.

Ma ora, ora che voi mi allontanate, ora so che da tempo aspettavo questo momento, e ciò nonostante mi presento vulnerabile ai vostri occhi, indifesa alle vostre parole, sofferente e inerme davanti alla vostra decisione, anche se, ora, ho finalmente capito. Mai pensai davvero di possedervi né di potervi trattenere. Era per me che in realtà tessevo, per ritrovarmi, una volta rimasta sola, tra le mie stesse mani. Guardavo le dita scorrere agili anche quando gli occhi esausti chiedevano pace. Senza sosta svelavo alla bambina impaurita che sempre veglia, segreti inconfessati, tentativi falliti, piccole vittorie di cui andare fiera quando l’amor proprio si lecca in un angolo le ferite brucianti.

Non temete, mio Signore, né rancore né vendetta. Il legame che ancora stringe le nostre anime rifiuta di trattenere in sé la rabbia e, priva di essa, il dolore penetra dolce. E che importa se il respiro accelera, per essere poi smorzato dalla tristezza che la solitudine, vorace, si lascia ai piedi.

Mio signore, vi sia resa la libertà e che vi sia proficua!

E non temete il distacco: il tempo attenua la perdita, offusca il ricordo, riconcilia gli animi.
Così sia per voi.
Così sia per me.

COCCI DI UNA ADOLESCENZA LONTANA
di Viviana Segantin (Padova)

Caro papà,
in questo momento delicato che sto attraversando, la mia mente salta, corre, talvolta si trascina con affanno, ripercorrendo gli episodi più rilevanti che hanno contribuito a fare di me la donna che sono oggi. Tra banchi di scuola, amicizie dimenticate e amori irrisolti, gli anni si confondono ingannando la memoria. Ma un fatto è rimbalzato nitido e prepotente davanti ai miei occhi; un evento della cui portata all’epoca non potevo avere completamente cognizione, ma che adesso, nel travaglio dell’anima, mi si ripropone come una tappa fondamentale della mia vita.

Solo ora capisco che con quel bicchiere scaraventato brutalmente sul pavimento, era andata in frantumi anche la mia infanzia. Quel gesto del tutto inconsueto per te, uno scatto d’ira completamente inaspettato, mi ha ufficialmente iniziata all’adolescenza. Attonita e ammutolita, avevo osservato i cocci sparsi nel salotto senza la consapevolezza che quella rottura materiale era il vessillo di una rottura meno tangibile, ma più profonda: il passaggio da un’epoca ad un’altra.

La bambina serena, cresciuta in una famiglia tranquilla e affiatata, che fino al giorno prima aveva caracollato stringendo la mano della mamma, stava rivendicando il diritto di uscire la sera, di scegliersi la compagnia, di simpatizzare con i ragazzi, di conoscere il mondo, di imprimere i primi segni nella tela ancora immacolata che ognuno incide giorno per giorno, semplicemente vivendo. La silenziosa quiete di quel pomeriggio era stata snaturata dall’eco secco e pungente di un oggetto che si spacca: quei vetri taglienti che brillavano come diamanti spigolosi sul pavimento scuro mi sono penetrati nell’anima, marcando il primo solco profondo della percezione del dolore.

Ancora non potevo comprendere l’entità di quell’evento: l’innocenza della fanciullezza mi impediva di raccapezzarmi tra il groviglio delle pieghe enigmatiche proprie della mente adulta; ero effettivamente ancora lontana dalle verità di quel mondo cui stavo vanamente rivendicando di appartenere. Ancora non sapevo che quel vetro sarebbe rimasto per sempre sotto i miei piedi, ora tagliente, ora impercettibile; ancora ero ignara del fatto che mi avrebbe procurato ferite lievi, che si sarebbero rimarginate ed altre più intime, che avrebbero lasciato il segno. Avevo però avvertito come fosse giunto il momento di affrontare con le mie gambe il faticoso cammino della vita e mi ci sono avventurata con febbrile cautela: passo dopo passo ne ho assaggiato, toccato, assaporato, sperimentato, intuito l’essenza. Ne ho conosciuto il gusto agrodolce dalle infinite sfumature inafferrabili. Avevo capito che le emozioni pacate dalle tinte pastello del passato sarebbero rimaste solo un lieto ricordo; quello squarcio prepotente che si è aperto sulla mia fanciullezza mi ha abbacinata con i colori violenti delle passioni del cuore, dei conflitti della mente, dello struggimento dell’anima. Quei frammenti di vetro che, di tanto in tanto, come frecce appuntite, mi hanno ripetutamente colpita causando lampi più o meno intensi di dolore erano le difficoltà della vita, le insidie della consapevolezza.

Solo ora che i miei piedi hanno camminato, che la pelle si è ispessita per la fatica, che la mia sensibilità ha portato il peso di umiliazioni e ingiustizie, che il mio cuore è stato inondato dalla passione e lacerato dal tradimento, solo ora che ho conosciuto la gioia che rapisce e il dolore che devasta, la tristezza che annienta e l’amore che travolge, solo ora che la mia anima porta chiari segni delle cicatrici della vita, percepisco il valore immenso di quel bicchiere.

Inconsciamente sapevi che era giunto il momento: la tua protezione non sarebbe più bastata, le tue parole non sarebbero più state forti abbastanza; così tentavi disperatamente di difendermi, sfogando la tua rabbia contro la natura che, come una calamita, mi attirava lontano con la magia invisibile di un potere a cui non ci si può sottrarre. Sapevi che avrei dovuto farmi male per capire, che avrei dovuto soffrire per interiorizzare il pericolo, esperire per conoscere; e lottavi invano per impedirlo.

Solo ora capisco che quello che avevo inteso come un gesto inconsulto, sconsiderato, esagerato era lo scatto di una mano che, tentando di salvare qualcosa di prezioso che stava precipitando, si era ritrovata a carpire solo aria, incapace di afferrare l’oggetto in caduta.

I tumulti, le inquietudini, le delusioni, le sorprese, i sentimenti, i legami, i cambiamenti che si rifrangono in quei piccoli frantumi di vetro che, riflettendo ora luce, ora sangue, hanno fatto di una bambina una donna, vorticano nella mia memoria con cristallino barbaglio.

All’epoca non conoscevo la durezza contro cui talvolta ci si scontra: c’eravate tu e la mamma a sobbarcarvi questa responsabilità sostenendomi con la forza della vostra esperienza. Ora so cosa significa avere la consapevolezza di essere: è meraviglioso e tremendo, lieve e opprimente, esaltante e spaventoso; mai banale.

Ed ora che sto tirando le fila della mia giovane vita, ti voglio ringraziare, perché solo oggi, dopo aver incontrato, condiviso, provato, costruito; solo oggi, dopo aver creduto, sperato, lottato, esultato; solo oggi, dopo avere assimilato il tuo gesto come un rituale solenne che ha sancito un nuovo inizio, sono finalmente in grado di raccogliere senza paura i cocci di un’adolescenza lontana, constatando con orgoglio di avere acquisito, anche grazie a te, la capacità più squisita e sconsiderata che possa esistere: vivere deliberatamente.
Con immenso amore,

Tua Vivy

LE ALI DEL DESIDERIO
di Luigi Baldassare (Udine)

Come il sole hai scaldato
il pianto delle mie tristezze,
come un ruscello hai percorso
il letto dei miei silenzi,
come una fertile campagna
hai creato germogli di passioni,
come un vento caldo hai portato
ricordi ed emozioni lontane,
come il tramonto sei scesa
luminosa e lieve
tra le montagne delle mie paure,
come la vita hai aperto
le porte ad una piccola eternità.
Allora ho aperto al vento
le ali del mio desiderio
e ho nascosto in un bosco di ciclamini
i vestiti delle mie attese.
Poi con le mani di un sogno
ho raccolto il tuo seme
fra la rugiada mattutina
ed ho seminato in un campo di papaveri
l’attesa di un arcobaleno.
Nel mio cielo volavano ancora gli aquiloni.

SAPESSI QUANTE VOLTE
di Paola Tiscornia (Milano)

Ho un sogno, sai? Rincontrarti. Una volta sola, magari, basterebbe. Vederti di nuovo, prenderti la mano. Prenderti sottobraccio e fare di nuovo ancora un po’ di strada insieme. Prendere il telefono, la mattina, fare il tuo numero così, solo per niente, soltanto per sentire la tua voce. Come facevo prima, come facevi tu. Parlare del tempo, della notte passata, di quella che verrà.
Oppure no, prenderti in giro, un po’ per gioco e molto per il gusto di rischiare, in bilico sul precipizio, col cuore in gola come un funambolo alle prime armi. Portarti al punto che conosco così bene in cui cerchi di non arrabbiarti e non ci riesci, e poi non cerchi neanche più. Finivamo col litigare, con parole già viste e già sentite che darei non so cosa adesso per poter ripetere e sentire. Invece adesso c’è il silenzio. Allora ti tendevo la mano e questo bastava per ricominciare. Mi piaceva cedere, mi dava un senso di potere. Era la forza contro la forza, la mia contro la tua.
Non ci sono più scontri, adesso. Né incontri.

Sapessi quante volte, ora che è finita, mi sorprendo a pensare che mi manchi. Sapessi quante volte mi pare ancora di vederti per la strada. Le corse che faccio, con il cuore in gola, per stringerti all’angolo, spiarti dalla vetrina di un negozio, arrivare prima di te, voltarmi come per caso e poterti guardare bene in faccia. Le rincorse che prendo per mettermi al passo con te, arrivare quasi a sfiorarti, controllare la tua camminata, se davvero è la tua, osservare il modo in cui tieni la borsa stretta al fianco, verificare come un parrucchiere il colore dei capelli, se ancora è lo stesso. Ah, è ridicolo, e forse lo sono anch’io mentre mi fermo di colpo, cerco di darmi un tono, osservo se qualcuno per caso mi ha osservato, ritiro la mano e ti guardo allontanare.

Non ti ho chiamata, non ti saresti voltata.

Chissà poi come sei adesso, come sarai bella, di chi sei e a chi appartieni. Chissà chi ami, se ami. Chissà chi guardi, se guardi, se sai guardare e con che occhi.
Chissà se ci sono ancora io, per te. Se faccio parte del tuo passato o del tuo presente. Chissà se anch’io ti manco, cara.

Io continuo a parlarti tentando di imbrogliare il tempo, a porgerti come fiori e colori tutte le parole che non ti ho mai detto quando eravamo insieme. Non perché non sapevo dirtele, anzi. Non ho proprio voluto. Rimandavo. Mi pareva poco importante, e avevo sempre qualcosa di più urgente e di diverso, qualcosa o qualcuno da mettere davanti a te. Non avevo voglia, non l’ho cercata, tante cose invece di dirle a te le ho dette ad altre persone che hanno diviso la mia vita per un minuto o solo per un giorno. Ora che le parole fra noi non servirebbero, vorrei legarle, farne una collana lunga come il mondo e avvolgertela attorno. Per non farti scappare, per farti ritornare.

Facile, eh? Diresti tu. Diresti, come un tempo: forse non ricordi tutte le volte che mi hai fatta piangere. Quando mi provocavi per vedere se stavo male e quanto, quando mi sfidavi, quando fuggivi, le notti in cui ti ho atteso, sveglia, contando il ritmo del mio respiro. Lo so, lo sai? ma era amore anche quello. Ora rivorrei indietro persino quegli sbagli, per rifarli ancora. Per usarli contro di te. Ancora insieme, noi due. Rivorrei le tue mani, i tuoi occhi: “Vedi? Ho gli occhi di mio padre”, dicevi. Alla luce hanno riflessi d’oro. Vedevano così male, sapevano vedere così bene.

Facciamo un gioco? Come ai tempi dell’infanzia. Mi siedo sul letto e ti cerco con la mente e con il cuore. Ti chiamo, tu arrivi. Me l’avevi promesso: “Io per te ci sarò sempre”. È vero, ma era così tanto tempo fa. Vieni ugualmente, ti avvicini, non proprio come vorrei ma abbastanza perché io veda che sei tu. Allunghi una mano per toccarmi. “Quanti capelli bianchi hai, adesso”, dici in un sospiro.

Non ti rispondo, ora che ti vedo, non ho niente da chiedere, da dirti. Puoi anche stare zitta, a me basta solo che non te ne vai.

Riapro gli occhi e accanto a me vedo mia figlia. È di corsa, è sudata, ha fretta ma si ferma sulla porta. Come altezza non arriva al Comò, ma ha già l’intuito di una donna. Mi guarda con affetto, come se tra noi due la più indifesa fossi io. Alla luce, sembra che i suoi occhi abbiano riflessi d’oro. Mi chiede, piano, con chi sto parlando.
“Con mia madre”, rispondo al suo sorriso. “Le ho appena detto quanto le voglio bene”.