Orientamenti astronomici dei siti sacri e calendario presso la Cultura Celtica
Prima di occuparci espressamente dell’Astronomia conosciuta e praticata presso questo insieme di popoli, è necessario comprendere il motivo per cui a distanza di 2500 anni i Celti e la loro cultura suscitano così tanto interesse presso gli archeologi e ultimamente presso gli archeoastronomi.
Parte del loro fascino lo devono al fatto che dell’aspetto speculativo e scientifico dei Celti si conosce ancora molto poco e soprattutto c’è ancora tanto da scoprire.
Le vie da seguire per tentare di comprendere quale fosse il livello da loro raggiunto in questi campi sono principalmente due. Esse sono da un lato l’esame di quanto è stato scritto sulle loro conoscenze da parte degli autori classici e dall’altro l’analisi dei reperti archeologici che risultano essere in qualche modo legati alla pratica dell’osservazione del cielo, alla speculazione filosofica, alla misura del tempo e alla capacità di eseguire calcoli e previsioni relativamente all’accadere di taluni fenomeni celesti.
Se da un lato abbondano le fonti classiche dall’altro parimenti sono numerosissimi i reperti archeologici che non sono quasi mai stati interpretati in chiave archeoastronomica. Ciò deve essere fatto tenendo ben presente l’incertezza insita nei reperti per il solo fatto della loro collocazione cronologica quindi a causa dei deterioramenti da essi subiti nel corso dei 25 secoli trascorsi.
L’analisi archeoastronomica deve essere comunque portata avanti con criteri di massimo rigore, tenendo ben presenti i limiti che i risultati raggiungibili possono avere, e con strumenti adeguati. Questi strumenti sono generalmente rappresentati dalle tecniche matematiche e statistiche che permettono di misurare l’affidabilità di ciascun risultato raggiunto, dal calcolo astronomico che permette di ricostruire con precisione quasi assoluta la posizione di ogni singola stella visibile in cielo durante il periodo in cui la cultura celtica si sviluppò. Oltre alle tecniche sofisticate non dobbiamo tralasciare i calcolatori elettronici che con la loro velocità di calcolo ci hanno permesso di ricostruire velocemente e ripetutamente il cielo visibile da un celta durante la notte in una qualsiasi data durante l’età del Ferro.
Noi non eravamo fisicamente lì, ma i computers ci consentono oggi di visualizzare le stesse cose e di renderci direttamente conto di cosa era osservabile nei cieli di quel tempo presso qualsiasi punto del territorio europeo.
I risultati raggiunti analizzando tutti i reperti archeologici che è stato possibile analizzare conducendo il lettore a rendersi conto, come noi abbiamo fatto, di come la scienza del cielo fosse nota e praticata presso i Celti. Prima di occuparci espressamente dei reperti è necessario farsi un’idea di chi furono i Celti e in quale modo essi vivessero.
I Celti nel loro periodo di massima espansione (400 a.C.) occuparono buona parte dei territori europei. Si venne a formare un’immagine dei Celti come uomini dediti alla guerra, ma estranei alle arti quali musica, la scultura e alla “filosofia” intesa nel senso datole dai Greci, ma non era così in quanto i prodotti del loro artigianato, soprattutto per quanto riguarda la lavorazione dei metalli, erano apprezzati anche nella stessa Roma.
Lo studio dei ritrovamenti archeologici mette in evidenza una grande abilità dei Celti in tutte quelle attività caratteristiche non di una popolazione barbarica (come ci è stato insegnato per secoli), ma di un popolo molto evoluto, che però non ebbe mai fortuna politica e militare a causa del continuo frazionamento e delle lotte interne tra tribù e tribù per questioni di egemonia politica.
Solo negli ultimi vent’anni infatti è ricominciato il riscatto culturale dei Celti in quanto nuove scoperte archeologiche e archeoastronomiche hanno rivalutato la loro arte, le loro conoscenze scientifiche e la loro civiltà.
I Celti avevano una società organizzata in diverse classi, la più importante era sicuramente quella dei sacerdoti detti Druidi.
I Druidi detenevano il potere religioso, quello giuridico e inoltre erano in possesso di vaste conoscenze riguardo la natura, le proprietà officinali delle piante e come scrive lo stesso Cesare nel De Bello Gallico, relativamente ai corpi celesti e ai loro moti.
I Celti rappresentarono sempre un grosso problema per i Romani, anche dopo la Guerra di Gallia vinta da Giulio Cesare, i quali li sconfissero militarmente, ma assorbirono una grandissima parte di usi costumi e tradizioni le quali si ritrovano presenti anche attualmente, circa due millenni dopo, nel nostro modo di vivere di oggi.
Infatti è incredibile la quantità di luoghi geografici, sia in Italia che in tutta l’Europa, che portano nomi derivati dalla lingua gallica e lo stesso accade per la denominazione di molti oggetti semplici di uso comune.
Paradossalmente a questa elevata influenza culturale non corrisponde una pari disponibilità di documenti scritti che testimonino l’attività intellettuale di questa gente, anzi i due rami principali della lingua celtica comprendono un vocabolario noto composto da poco più di qualche migliaio di parole.
La spiegazione per questa carenza esiste ed è da ricercarsi nel modello culturale celtico che riteneva la natura una cosa viva ed in continua evoluzione, la cultura era tramandata a memoria e lo scrivere significava congelare un concetto impedendone l’evoluzione, quindi i Celti tendenzialmente non scrivevano e se necessario lo facevano con una certa riluttanza utilizzando alfabeti presi a prestito da altre popolazioni quali quello greco e quello latino.
Non mancano comunque documenti scritti di origine celtica.Infatti Giulio Cesare (DBG, I, 29) scrive: “Nell’accampamento degli Elvezi furono trovati e portati a Cesare dei registri in lettere greche…” da cui si deduce che le scritture giuridiche erano di norma regolarmente redatte.
Anche nel luogo dove anticamente sorgeva l’Oppidum di Bibracte, importante centro di formazione druidica, gli archeologi hanno rinvenuto una grande quantità di graffiti su pietra comprendenti iscrizioni in lettere greche.
Era comunque di norma preferita una rappresentazione del mondo ottenuta secondo un linguaggio grafico criptico, che produceva figure di straordinaria bellezza e che ancora oggi possiamo ammirare sui manufatti, con l’idea di fissare l’essenza e il significato delle cose più che il loro aspetto esteriore.
Un simile modo di pensare era estremamente adatto ad una attività speculativa di tipo astratto per cui è facile ritenere che l’Astronomia e la Matematica fossero in qualche modo molto sviluppate tra gli esponenti della classe sacerdotale dominante, cioè i Druidi.
Le prime notizie intorno alle attività legate all’Astronomia e portate avanti dai Druidi le dobbiamo ad Ecateo.
Un interessante passo del suo resoconto trasmessoci da Diodoro Siculo è il seguente.
“…quest’isola situata nel nord, dove abitano gli Iperborei… …si adora Apollo sopra tutti gli altri dei e i suoi abitanti si considerano sacerdoti di Apollo e adorano questo dio tutti i giorni. In questa isola esiste un magnifico recinto e un tempio di forma sferica adornato con molti ex-voto.
Essi [gli abitanti] dicono che la Luna vista da questa isola pare rimanere molto prossima alla terra e che mostra montagne che si possono osservare con semplice vista.
Si dice che il dio visita l’isola ogni 19 anni periodo nel quale si realizza la stessa volta celeste e la medesima situazione in cielo e per questo il periodo di 19 anni è chiamato dai Greci anno di Metone.
Nel momento della apparizione del dio tocca l’orizzonte e danza tutta la notte dall’equinozio di primavera alla salita delle Plejadi…”.
Il testo si riferisce sicuramente ai Celti (gli Iperborei) essendo datato 300 a.C. e l’isola potrebbe essere la Britannia.
Qualcuno ha proposto Stonehenge per il tempio e qualcun’altro Gavrinis in Bretagna, situato sull’omonima isola. Il fatto che la Luna viaggi così rasente l’orizzonte suggerirebbe invece una localita posta a latitudine geografica decisamente maggiore, prossima ai 60 gradi nord, per esempio Callanish in cui esiste un famoso cerchio di pietre in cui A. Thom, negli anni ’60, riconobbe consistenti orientazioni lunari.
Al di là della corretta identificazione del luogo geografico a cui Ecateo si riferisce abbiamo la testimonianza di osservazioni astronomiche condotte dai Celti a scopo religioso e rituale e l’utilizzo di un tempio di forma circolare per la celebrazione dei riti.
In più la consapevolezza del ritorno della Luna nella stessa posizione apparente in cielo e con la stessa fase ogni 19 anni solari ci testimonia che nel 300 a.C. i Druidi Celti insulari conoscevano il Ciclo di Metone.
Non sappiamo oviamente se per patrimonio culturale proprio oppure acquisito in qualche modo dall’esterno poiché Metone visse in Grecia circa 150 anni prima del resoconto di Ecateo di Abdera.
Successivamente abbiamo le citazioni di Pomponio Mela (De Chorographia, 3, 2, 18): “…I Druidi pretendono di conoscere le dimensioni e la forma della terra e del mondo, i movimenti del cielo e degli astri e il volere degli dei.” che coincideranno con quanto Cesare scrive nel resoconto della guerra di Gallia. Giulio Cesare nel suo “De Bello Gallico” ascrive ai Druidi grande conoscenza del cielo, delle stelle e dei loro moti.
Infatti egli scrive (DBG, VI, 14): “Vengono anche trattate ed insegnate ai giovani molte questioni sugli astri e sui loro movimenti, sulla grandezza del mondo e della terra, sulla natura, sull’essenza o sul potere degli dei…” Va ricordato che il periodo di addestramento necessario per diventare Druidi durava 20 anni e durante tutto questo tempo gli allievi dovevano memorizzare tutta la scienza druidica. Questo periodo pare molto correlato con il ciclo Metonico lunare che dura, come abbiamo visto, 19 anni solari.
Tutto il sapere veniva insegnato oralmente e imparato a memoria. Questo motivo è però la causa della difficoltà che oggi abbiamo nel conoscere le abitudini, le usanze e le conoscenze di questo popolo che ha lasciato poche testimonianze scritte.
Un’altra citazione emblematica è la seguente, riportata da Strabone nella sua “Geografia” (IV, 4, 4):
“I Druidi affermano e altri con loro, che le anime e l’universo sono indistruttibili, ma che un giorno il fuoco e l’acqua prenderanno il sopravvento su di essi.”E’ chiaro che bisognerebbe sapere esattamente cosa i Druidi intendessero per “Universo”, ma questa citazione sembra proprio contenere qualche notizia sulle idee che i Druidi avevano relativamente alla cosmologia.
Anche Orazio ci tramanda qualche notizia, infatti egli scrisse:
“I Celti avevano, parimenti, i cosiddetti Druidi, essere esperti nella divinazione e in ogni altra scienza…”.
Un’altra testimonianza ci viene da Diogene Laerzio il quale scrive:
“Affermano alcuni che che la ricerca filosofica abbia avuto inizio dai barbari. E infatti Aristotele nel libro Magico e Sozione nel libro ventitreesimo della Successione dei filosofi dicono che gli iniziatori furono i Magi presso i Persiani, i Caldei presso i Babilonesi e gli Assiri, e i Gimnosofisti presso gli Indiani, i così detti Druidi e Semnotei presso i Celti e i Galli”.
Il fatto che Giulio Cesare incaricasse Sosigene di preparare la riforma del calendario romano nel 45 a.C. proprio dopo la Guerra di Gallia, cioè dopo il contatto con i Druidi Celti è molto interessante.
Infatti come è testimoniato sia da Plinio il Vecchio sia dai ritrovamenti archeologici venuti alla luce nel 1897 a Coligny, i Celti possedevano un calendario tanto complicato quanto efficente e di qualità molto superiore a quello in uso presso i Romani prima della riforma Giuliana.
Esistono altresi documenti che attestano fitti scambi di idee tra i pitagorici della scuola siracusana e Druidi celti che si incontravano nelle varie colonie greche della costa meridionale della Francia.
Infatti Timagene (30 d.C), (in Ammiano Marcellino XV, 9-8) afferma testualmente:
“… si sono sforzati con le loro ricerche di penetrare gli accadimenti e i segreti più sublimi della natura; tra costoro prevalgono, per il loro genio, i Druidi, così come ha stabilito l’autorità di Pitagora”.
Nella “Refutatio Omnium Haeresium” (Philosophumena, I,2,17; I,25,1) scritta nel III secolo da Ippolito Romano troviamo un altro passo molto significativo: “I Druidi dei Celti hanno studiato assiduamente la filosofia pitagorica… E i Celti ripongono fiducia nei loro Druidi come veggenti e come profeti poiché costoro possono predire certi avvenimenti grazie al calcolo e all’aritmetica dei Pitagorici. Non tralasceremo la loro dottrina, dal momento che certuni hanno creduto di poter ravvisare diverse scuole filosofiche presso costoro”.
In questo passo Ippolito non solo mette chiaramente in evidenza che i Druidi conoscessero la filosofia pitagorica, ma si esprime relativamente all’uso del calcolo aritmetico al fine di predire gli eventi naturali.
Qui il testo è molto stringente infatti l’originale greco traslitterato, è molto preciso, testualmente:
“… ‘ek psephon kai ‘arithmon Pithagorike techne,” e non lascia dubbi sulla connessione tra pensiero celtico e pitagorico.
Ritorneremo dettagliatamente su questo fondamentale e grandemente discusso argomento più oltre in questo libro. Gli eventi a cui Ippolito fa riferimento sono quelli che anticamente erano per eccellenza quelli predicibili mediante il calcolo matematico, cioè quelli astronomici: le stagioni, le date di sorgere delle stelle le posizioni del Sole e suprattutto quelle della Luna, ivi comprese le eclissi.
Anche Clemente Alessandrino, (Stromateis I, XV, 71, 3 seg.) si pronuncia in questo senso riportando testualmente quanto affermato da Alessandro Polistoro nel “De Pythagoricis Symbolis” (II-I secolo a.C):
“Nel suo libro sui simboli pitagorici Alessandro sostiene che Pitagora era stato allievo di Nazarato l’Assiro e pretende, inoltre, che Pitagora avesse ascoltato Galati [cioè i Galli] e Brahmani. Nell’antichità la filosofia, scienza di somma utilità, è fiorita presso i barbari, diffondendo la sua luce sulle nazioni. In seguito essa arrivò in Grecia. Al primo posto stanno i profeti degli Egiziani, i Caldei presso gli Assiri e i Druidi presso i Galli, i Samanei presso i Battriani, i filosofi dei Celti e i magi dei Persiani”.
I Celti vennero in contatto con i pitagorici a causa del fatto che le colonie greche stanziate in prossimità della costa meridionale della Gallia come l’attuale Marsiglia tenevano regolarmente contatti culturali e scambi economici con i Galli.
Le scuole druidiche infatti ebbero molte rassomiglianze con quelle pitagoriche ad esempio anche le donne potevano essere ammesse allo studio dei sacri precetti.
Anche per i Celti, al pari dei pitagorici, esitevano dei numeri che potremmo definire magici, credevano nell’immortalità dell’anima, lo strumento suonato era l’arpa e soprattutto i Druidi, come i pitagorici, tramandavano oralmente le loro conoscenze.
Oltre alle citazioni degli autori classici esistono anche testimonianze archeologiche a conferma del fatto che fossero esistiti contatti tra i Druidi e taluni esponenti della scuola Pitagorica.
Tra i reperti più significativi va annoverato lo “Stagno Monumentale” dell’Oppidum di Bibracte, l’antica capitale dello stato degli Edui. Come sarà messo in evidenza con maggior dettaglio più oltre nel prosieguo di questo libro, nella città di Bibracte esisteva, nel I secolo a.C. una grande vasca in pietra, di forma ellittica, colma d’acqua che serviva ai Druidi per scopi rituali.
La progettazione della vasca fu eseguita con criteri astronomici per quanto riguarda la sua orientazione e con criteri geometrici basati sulle terne pitagoriche per quanto concerne la forma e le dimensioni. Questi criteri risultano essere presenti anche in numerosi altri siti sacri per i Celti e distribuiti per tutta l’Europa quindi è naturale immaginare che i criteri che noi vediamo applicati a Bibracte altro non fossero che parte del normale bagaglio culturale dei Druidi. Al di la delle pure e semplici citazioni classiche di tipo generale esistono anche almeno due casi di citazioni relative a Druidi realmente e storicamente esistiti.
Il primo caso si riferisce a Divitiacus, Druido proprio a Bibracte, amico di Cesare e da lui citato molte volte nel De Bello Gallico. Di lui è documentata l’esistenza durante la guerra di Gallia quindi dal 61 al 56 a.C. (Giulio Cesare, DBG 1,20; 2,5,1-2; 7,39,1; eccetera).
Cicerone (De div. 1,41,90) lo descrive come un uomo di grande sapere dedito allo studio della natura e capace di discutere di questi temi con gli intellettuali romani.
Tra l’altro l’epoca in cui Diviziaco visse e operò coincide bene con l’epoca durante la quale lo stagno di Bibracte fu costruito, quindi non è da escludere che questo influente personaggio eduo abbia avuto qualche ruolo nella costruzione del monumento.
Il secondo caso si riferisce a Deceneo vissuto secondo Iordanes (De Origine Actibusque Getarum 5,39) durante in I secolo a.C. presso i Geti, in territorio balcanico, più o meno dove fu in uso in quel periodo il santuario di Sarmizegetusa (allora capitale della Dacia), pressapoco l’attuale Romania. Strabone (7,3,5 e 11; 16,2,39) riferisce di lui che: “…era capace di compiere previsioni in accordo con i segni celesti”Secondo la lunga citazione latina, Deceneo dimostrava di conoscere il corso dei 12 segni celesti, cioè le costellazioni zodiacali, e tutta l’Astronomia nota a quell’epoca.
Va messo bene in evidenza che l’uso che i Druidi facevano del cielo e soprattutto delle dodici costellazioni zodiacali non era astrologico. Infatti l’astrologia si diffonderà solamente più tardi come abitudine di provenienza orientale introdotta in Gallia dai Romani.
Le previsioni che Deceneo era in grado di fare si riferiscono alla cadenza dei fenomeni celesti, nel migliore stile pitagorico, e non agli eventi futuri secondo il malcostume astrologico oggi tristemente ben noto e largamente diffuso.
Alla luce di tutti questi fatti sembra del tutto naturale riconoscere alla cultura celtica un elevato grado di avanzamento per quanto riguarda le scienze “esatte” quali la Matematica e ancor più l’Astronomia.
(per approfondimenti vd. “L’Astronomia dei Celti”, “”I Druidi”, “Keltia Calendar1999”)