Brani scelti dal Volume Analogo
da “Appunti di Viaggio”
L’ULTIMA PAGINA
Marco Sali (Felizzano – Alessandria)
Sono partito un mattino. Di mercoledì.
Presto, mentre tutti dormivano. A metà settimana per non dar nell’occhio. Non ho mai sopportato gli addii, nemmeno da giovane.
Solo mia madre ha levato la testa dal cuscino per guardarmi una volta ancora. Forse piangeva. Ma in silenzio.
“Ciao mamma” ho sussurrato. È tutto quello che sono riuscito a dirle. Me ne sono andato perché ero stanco. Stanco delle facce affaticate nei campi. Stanco degli sguardi silenziosamente rassegnati. Stanco delle strade polverose, sempre le stesse, avanti e indietro tutta la vita. Stanco di quei grigi muri familiari. Dovevo fuggire prima di abituarmici definitivamente, prima di arrivare ad amarli, prima di divenire anche io prigioniero di quel paesaggio.
C’era troppo mondo che mi chiamava al di là del mio limitato orizzonte. Volevo di meglio per me e me ne sono andato.
Non mi sono mai girato indietro. Avanti. Sempre avanti.
Perso un paese, uno vale l’altro. E quanti ne ho visti sulla mia strada. Ce n’era sempre uno migliore, che offriva di più, nel mio domani. Avanti. Sempre avanti.
Strade di terra bianca, rossa, lastricate, asfaltate. Scarpe su scarpe consumate. Sono stato di tutto senza essere nessuno.
L’orizzonte mi attirava. L’orizzonte è una promessa. Ho attraversato la grande acqua per inseguirlo.
“Là troverò la mia fortuna”. Altra terra, altra gente. Cordiale, indifferente, gentile, violenta, generosa, sfruttata e prepotente.
Gli stessi sguardi spenti che salutai, li ho ritrovati dall’altra parte del mondo.
“Non è qui quello che cerco. Forse…più avanti…”
Non ho mai avuto la fortuna di scartare regali e non so come ci si senta ma penso che sia quello che per me era scoprire un posto nuovo appresso all’altro.
Ho dovuto fare i conti con me stesso. Più di una volta. Per tirare a campare. L’uomo che sono è il mio unico orgoglio.
Ho camminato fin tanto che le gambe mi hanno portato. Poi mi sono fermato. A metà strada tra l’orizzonte e ciò da cui sono fuggito.
Mi sono fermato stufo di mondo. Mi sono fermato perché da qualche parte il ragazzo che ero, una mattina si è perso e qua, dove sono ora, è arrivato un uomo. Un uomo che vede l’orizzonte irraggiungibile e la casa da cui è partito lontana anni ed anni.
Avessi potuto catturare la gioventù non avrei mai smesso di camminare e se è vero che il mondo è rotondo un giorno mi sarei trovato davanti alla porta che mi chiusi alle spalle.
Non avevo ben chiaro, quando presi la strada, cosa cercassi veramente, se avventura, ricchezza, esperienze o fortuna, so solo che guardo la strada di fronte a me e la sento anonima. La vecchia strada polverosa, ricordo, emanava calore. Guardo lo sterminato cielo su di me e mi accorgo che è troppo vasto per essere capito da un uomo che ha saputo solo camminare. Sforzo la vista per tentare di scorgere lontano, dietro l’orizzonte, il vecchio bonario spicchio di cielo che mi ha visto nascere, ma so che non è possibile e allora non guardo più.
Ho portato il mio nome così lontano da fargli perdere ogni significato, da confonderlo tra le migliaia di parole della mia nuova lingua, così diversa da quella parlata che ancor mi condiziona l’accento.
Sono partito di mercoledì, non sono mai più tornato.
NOSTALGIA
Cristina Carbone (Chiavari – Genova)
Nostalgia. Voglio tornare nei luoghi dove vivono i miei ricordi felici. Odisseo andò errando dieci anni per i mari, sognando Itaca e la sua casa: la trovò invasa da estranei, mendicò il pane, vide scorrere il sangue, udì l’orrendo grido strozzato dei morenti. Agamennone pagò il prezzo del viaggio con la vita della propria figlia: trovò il suo letto occupato da un altro uomo, l’anima uscì dal suo cuore attraverso la ferita aperta dal pugnale stretto nella mano che credeva la più fidata.
Ad altri eroi gli dei pietosi preclusero la via del ritorno.
Ma io non sono un eroe omerico, nessun tragico destino segna la mia strada. Il paese che amo è ancora lì, i miei affetti li porto con me. Uguale è il campanile della stessa chiesetta, uguali i tetti grigi delle case, uguali le distese dei prati fioriti. L’erba, certo, non è più quella di allora. Le tegole sono state sostituite, l’intonaco del campanile ha cambiato colore. I bambini sono oggi uomini, gli adulti vecchi, i nonni marciscono sotto un dito di terra in cui è conficcata una croce. Dalla fontana scorre altra acqua, ma la crepa è rimasta. La ricordo, la riconosco. La crepa non mi ricorda, non mi riconosce. Io non sono più quella. Il mio viso è segnato da rughe, i miei capelli sono striati di grigio, il mio sguardo si accende di altri pensieri. Nel mio corpo scorrono altri umori, nel mio cervello palpitano altre emozioni. Altra pelle veste la mia mano che sfiora quella crepa, altre sensazioni vibrano attraverso i nervi.
Non voglio tornare nei luoghi dove i miei ricordi felici son morti. Dolore del ritorno. Nostalgia.
UN’ESTATE A KARPATHOS
Franca Calcabotta Sirica (Monza – Milano)
Le poche case ocra parevano nascere dal ventre asciutto delle colline, così avare di vegetazione. Dalle finestre spalancate profumi speziati ci pervadevano, spandendosi lungo l’irta salita alla chiesa, frammento di zucchero filato fra semplici abitazioni contadine. I raggi di sole accarezzavano le strette feritoie compiendo ardui giochi acrobatici su affreschi che poco raccontavano del glorioso passato ma che, indubbiamente, custodivano preghiere millenarie, imprigionate dal fumo di candele incensate. Vecchie, pensose, pregavano. Nei loro occhi umidi ci specchiavamo per viaggiare a ritroso nel tempo, dove fanciulle, vestite a festa, danzavano vorticosamente in un connubio di sacro e profano. Fuori, nell’abbraccio protettivo della dea Madre, il silenzio, interrotto dal canto ossessivo delle cicale e dal vento, che soffiava nel dedalo di vicoli bagnati di luce.
Sulle soglie delle case ci colpiva lo sfolgorio arabescato dei vestiti delle anziane donne. Il nostro sguardo si perdeva nella geometria dei ricami. Mani stanche e rugose scuotevano antichi setacci in cui volteggiavano ritmicamente chicchi di grano, futura farina per un pane ancestrale preparato secondo i rituali secolari.
Qualche contadino percorreva le vie del paese, a dorso di mulo. Gli occhi penetravano un orizzonte indecifrabile secondo il ritmo che appartiene ai pellegrini erranti senza tempo. Soltanto al passaggio di qualcuno la mano si alzava in un cenno di saluto la cui spazialità sembrava incommensurabile, a memoria dell’ospitalità omerica. Camminavamo nel labirinto di vicoli e non osavamo parlare: la nostra voce avrebbe dissipato quel luogo magico in cui potevamo ascoltare la parte più antica della nostra anima. Forse avevamo raggiunto l’utopia dei sogni, il non luogo della sospensione spazio-temporale. Il mondo quotidiano, a cui eravamo abituati, ci appariva lontano, offuscato ma, soprattutto, ne percepivamo l’indesiderabilità.
Il suono della lira, ascoltata la sera precedente, affiorava come un ricordo senza consapevolezza. Ci aveva incantato, come cobra, la gestualità ritmica di Antonio, agili dita per suoni eguali a se stessi in una ripetizione ossessiva. Non c’era inizio, non c’era fine: soltanto la gioia della musica dionisiaca che elude ogni tragedia e che inneggia all’eternità della vita, alla circolarità del tempo, all’unità atavica dell’uomo, quando corpo e anima costituivano un tutt’uno.
Di nuovo lo stesso ritmo bacchico ci rapiva, trasportandoci presso una vecchia insegna, quasi illeggibile, “Café”. Nell’atrio, una minuta donna, silenziosa, ci scrutava. Sul volto, rugoso e stanco, contemplavamo il gioco teatrale delle maschere, origine della storia dell’uomo. Panchine di legno accoglievano camminatori stanchi. Sorseggiavamo un caffè dai sapori forti e racconti incomprensibili riempivano le nostre orecchie. I nostri cuori si aprivano a un ascolto nuovo, fatto di gesti e di rituali dove lo spazio della parola non esiste.
E poi, al “Cafè”, ecco Giorgio e con lui la memoria della scuola italiana quando l’isola si chiamava Scarpanto. D’improvviso il canto epico prendeva il sopravvento su ogni suono. Ascoltavamo narrazioni intessute di immagini care e sfuocate che appartenevano a un tempo amato e rimpianto. Pagine di tradizione orale e di racconti senza regole linguistiche. La parola si ampliava negli spazi affettivi, la maieutica socratica trionfava nel ricordo della maestra venuta dall’Italia.
Ci guardavamo e mi rivedevo come Olimpia che in quest’isola insegnò. I miei stessi occhi, i miei capelli. Mi commuoveva ripensarla lontana dalla sua casa, in quest’isola dalle strade polverose e dalla roccia che precipita nel mare. Passeggiava tra la nebbia dei monti, di mattino, guardando il volo maestoso dei falchi. Sulla cattedra la attendevano gonfi fichi maturi, frutto dell’aspra terra, dono dell’ospitalità greca. Dalle panche di legno occhi vispi, scuri come le olive di Creta, la studiavano, pronti ad ascoltare la sua voce fatta di suoni a loro sconosciuti. La lingua degli dèi veniva negata e scacciata ma Olimpia non c’entrava in tutto ciò. Era l’immagine del preludio, della commedia prima che nascesse la tragedia.
Ci guardavamo chiedendoci, nel silenzio di pensieri comuni, se non avessimo raggiunto il luogo archetipo dell’anima o forse la sua utopia.
Sapevamo, di certo, di stare nello spazio onirico del viandante e questo ci bastava per soddisfare i desideri remoti della conoscenza dell’anima, che, per natura, ci appartengono.